Quando nella società si parla di marxismo culturale, ci si riferisce spesso ad una generica sfera progressista del pensiero e della politica, in maniera però spesso contraddittoria e poco appropriata. Quando intendiamo portare la nostra critica politica ad un determinato pensiero o ad una sfera di presunti valori, è importante che la critica sia diretta esattamente al bersaglio della stessa, e non ad un generico polverone indistinto di opinioni e tesi che spesso raggrumano tutto ed il contrario di tutto.

Chi oggi parla di marxismo culturale riferendosi ad una generica “modernità” del pensiero è in errore, poiché spesso il contributo di Marx alle tesi progressiste oggi dominante è scarso, se non addirittura nullo. Un marxismo culturale, beninteso, esiste, ma probabilmente il progressismo odierno, che invece è di marca postmoderna, è probabilmente una reazione ad esso, più che una sua espressione. Ne è un prodotto, seppur in forma indiretta, ed il delirio surrealistico del postmoderno è una reazione chimica per certi versi opposta al razionalismo scientifico della prassi di Marx.

Lo “Istituto per la Ricerca Sociale” di Francoforte sul Meno, comunemente noto come Scuola di Francoforte, si occupò di radunare, già in epoca weimariana, le migliori menti afferenti a diversi campi del sapere sotto la regia del filosofo marxista Max Horkheimer. Già nei primi anni ’30 infatti, di fronte al mancato avvento della rivoluzione socialista nei paesi industrializzati dato da Marx per ineluttabile, si poneva il problema, per i marxisti, di come giustificare tale mancato avvento alla luce dello stesso metodo scientifico di Marx. I primi francofortesi si diedero l’obbiettivo di salvare la visione dialettica della storia come fattore scientifico, tesi tipicamente marxista, con i nuovi elementi di natura extraeconomica sopraggiunti con la raffinazione della società dopo la belle époque e la Grande Guerra.

Si trattava di aggiungere, oltre all’analisi economicistica operata da Marx, anche elementi di sociologia, musicologia e addirittura psicanalisi. La società, per i francofortesi, doveva essere analizzata tramite una griglia più complessa di quella adoperata da Marx. In particolare, l’avversione al sistema borghese, identificato come struttura sociale opprimente ed autoritaria (fucina di personalità autoritarie), si qualificava come analisi sistematica di tutte le dinamiche della società borghese, di tutti i suoi ambiti, e non più solo di quello economico dei rapporti di produzione. Grazie soprattutto al contributo di Erich Fromm ed Herbert Marcuse l’analisi scientifica dell’autoritarismo passava dal piano esclusivamente economico a quello sociale e psicanalitico, con un particolare interesse verso l’elemento marxista del carattere di feticcio della merce usato come lente prospettica per interpretare i più vari aspetti della società. In particolare, cominciava a Francoforte una spietata analisi di quelli che erano gli albori della società dei consumi, analizzando le regressioni psicologiche allo stato infantile da essa indotti.

La riflessione francofortese si colloca quindi nel filone delle riflessioni del periodo giovanile di Marx, in particolare sul concetto di alienazione così come espresso nei Manoscritti economico-filosofici del 1844. Il tema dell’alienazione, anche qui, esce dall’ambito strettamente marxista, per tradursi più in lettura psicanalitica di una società alienata dalla condizione patologica dell’autoritarismo; un autoritarismo del quali non ci si è liberati dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, ma che anzi permane sotto forma di costruzione sociale alienata anche nelle democrazie liberali vincitrici, in Europa e negli Stati Uniti. Nella visione francofortese in particolare l’idea di Stato borghese autoritario si fondeva anche con quella del capitalismo di Stato di Friedrich Pollock, dove l’idea di un Panopticon totalmente amministrato non cozzava assolutamente con il libero mercato avversato dai comunismi, ma anzi lo sposava perfettamente, ed uno era l’espressione dell’altra.

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La ragione, la grande chimera degli autori illuministi, veniva così ad emergere in tutta la sua neutralità strumentale, una strumentalità che emergerà proprio nell’uso della ragione stessa al servizio delle ideologie barbariche della prima metà del Novecento. Tale riflessione sconvolse i francofortesi, ed in particolare il caposcuola Horkheimer, il quale dedicherà alla ricerca di una ragione “diversa” tutta la sua vita. Come acutamente notato dal Wiggershaus, la riflessione si spostava “dalla teoria della rivoluzione mancata a quella della civiltà mancata”. Un obbiettivo, quello della civiltà, che l’umanità aveva dimostrato di avere mancato tramite la tragica esperienza della Shoah.

Il cortocircuito filosofico che vedeva l’Olocausto come diretto erede dei Lumi, che pure avevano detronizzato i tiranni, gettò le basi per il fosco pessimismo tipico dei francofortesi, che genererà poi, quasi per reazione, il surrealismo postmoderno. Ne nascerà uno scetticismo generale per la comunità come concetto, vista come elemento irrimediabilmente pericoloso, che porterà Horkheimer, in epoca più tarda (1958), ad una posizione di arroccamento in difesa della borghesia ed il suo individualismo radicale: “Dobbiamo preservare quel che un tempo si chiamava liberalismo, l’autonomia del singolo. Ciò che conta per noi è assicurare l’autonomia personale al maggior numero di soggetti possibile”. Da questo avvitamento in difesa del liberalismo, o meglio ancora dal suo metodo intrinseco, si sprigioneranno in varie direzioni analisi e forme del pensiero che, figlie di un effettivo marxismo culturale, non sempre debbono però definirsi parti di esso.


Marco Malaguti è animatore di Progetto Prometeo.

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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.