Hanno destato interesse negli Stati Uniti le statistiche, recentemente rese note dai professori Mitchell Langbert e Sean Stevens, sul posizionamento politico dei professori universitari degli atenei americani. La ricerca, basata sui dati pubblici riguardanti le donazioni ai vari candidati alla Presidenza, ha mostrato come nove professori su dieci siano ascrivibili all’area democratica e più in generale progressista.

Secondo la ricerca, negli Stati Uniti il 48,4% dei professori risulta registrato come democratico, mentre i repubblicani sarebbero il 5,7%, con un rapporto di 8,5 a 1, nonostante nel Paese i democratici ed i repubblicani siano molto vicini ad equivalersi numericamente. Lo studio si dilunga poi nell’elenco di quali sarebbero ambiti di studio e facoltà più politicizzate in senso progressista e anche qui scopriamo cose in realtà note, ossia che sono le facoltà umanistiche e letterarie ad ospitare la gran parte dei professori politicamente schierati: antropologia, sociologia e inglese sembrano essere le facoltà più a sinistra, mentre più equilibrate sembrano le facoltà scientifiche, e quelle che richiedono l’attinenza alle discipline di calcolo.

Ma qual è la situazione altrove? Essendo vietate statistiche in merito, e non avendo in Europa un sistema di donazioni verificabile, tutto viene affidato molto di più alla percezione che non a dati numerici. Qualcosa però, in Italia, si può scoprire se consultiamo le statistiche sull’appartenenza sindacale del personale della scuola. In Italia, circa un docente su due è iscritto ad un’organizzazione sindacale. Secondo i dati resi pubblici nel 2019 dalle medesime sigle e riportati da “Repubblica”, i sindacati orientati a sinistra deterrebbero la maggioranza assoluta degli iscritti. La CISL il 24,7%, la FLC-CGIL il 24% mentre la UIL si ferma al 15,6%. Aggiungendo a tali percentuali quelle di GILDA e Cobas si arriva ad una cifra del 82,4%. Per dare un’idea del raffronto, l’unico sindacato legato al centrodestra, UGL-Scuola, si fermava allo 0,3%. Chiaramente le appartenenze sindacali non sono lo specchio fedele dell’opinione di tutti gli insegnanti, ma è difficile pensare che la metà non sindacalizzata abbia opinioni radicalmente diverse da quelle appena menzionate. Il dato del 82,4%, peraltro, è perfettamente in linea con quelli dello studio americano.

Sul come si sia arrivati a tale situazione si potrebbero scrivere libri. Limitandosi ad alcune considerazioni di base, che vadano oltre la citazione del concetto gramsciano di egemonia culturale, varrà la pena ricordare ancora il cambio di paradigma avvenuto alla fine degli anni Settanta con l’affermazione dell’egemonia, in campo accademico, del postulato post-moderno della filosofia del linguaggio, che riveste il come i concetti vengono espressi di un’aura salvifica capace di trasformare simultaneamente la realtà; motivo per cui le sinistre tendono ad intestardirsi fortemente sull’uso delle parole (pensiamo a quelle “proibite”, ai pronomi gender o a neologismi come “femminicidio”, “ministra” etc.). L’osservazione sarebbe indirettamente confermata dallo studio citato all’inizio, secondo cui le facoltà scientifiche tendono ad essere politicamente più neutre, proprio in quanto i numeri rendono difficili le “interpretazioni” che invece un enunciato linguistico rende possibili.

Chiaramente la motivazione è ben lungi dal fermarsi qui e si diversifica da Paese a Paese. Nel caso italiano le Sinistre, pur mantenendo prassi gramsciane, hanno adottato i paradigmi del ’68 di una scuola inclusiva che andasse “incontro” anziché chiamare alla cultura, voltando così le spalle alle tesi di Gramsci che appaiono invece sorprendentemente conservatrici in tal senso. L’importanza del metro linguistico nell’apprendimento per cambiare espressamente non tanto i fatti percepiti ma il come fossero percepiti, lo si può già desumere dal fatto che un documento di importanza enorme per la scuola italiana, le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica (redatto nel 1975 dal GISCEL -Gruppo d’Intervento e di Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica), sostenesse già, in ossequio all’approccio socialisteggiante di Rodari e Don Lorenzo Milani per cui “non esiste un sapere universale ma una miriade di saperi”, che l’insegnamento tradizionale sarebbe “utile soltanto agli allievi delle classi sociali più colte e agiate, e non a quelli provenienti dalle classi popolari ed operaie”. Il documento accusava invece come le principali deficienze in materia di studio avvenissero per motivi diversi, quali ad esempio “la mancanza di coordinamento spaziale”, da curare “non insegnando norme ortografiche direttamente, ma insegnando a ballare, apparecchiare la tavola, allacciarsi le scarpe etc”. Era precisamente Don Milani che già nel 1967 affermava: “A latino vi chiederemo qualche parola antica che dice vostro nonno, a geografia la vita dei contadini inglesi, a storia i motivi per cui i montanari scendono al piano”. Una proposizione, quella della Scuola di Barbiana, che ha fatto breccia un po’ ovunque, e che oggi è compiuta realtà.

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Non l’ignorante che si fa sapiente, dunque, ma il sapiente che va incontro all’ignorante in quanto esponente della purezza proletaria. Un approccio che Adorno nei Minima Moralia scherniva come borghese. “Il borghese è tollerante“- scriveva – il suo amore per la gente com’è nasce dall’odio per l’uomo come dovrebbe essere”. Un odio verso i più dotati ed i “geni”, col parroco di Barbiana che quasi sembra rispondere ad Adorno affermando: “La teoria del genio è un’invenzione borghese. Nasce da razzismo e pigrizia mescolati insieme”. Difficile essere più chiari. Si aggiunga, a ciò, la potenza dei sindacati e dei partiti, che da sempre si rinforzano l’uno con l’altro, e si potrà avere un’idea di come il cambio di paradigma nel mondo dell’istruzione sia avvenuto e di come, eventualmente, porvi rimedio.


Marco Malaguti è esponente del Progetto Prometeo.

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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Studioso di filosofia, si occupa da anni del tema della rivalutazione del nichilismo e della grande filosofia romantica tedesca.