Era il 1984 quando la Gran Bretagna s’impegnò a trasferire alla Repubblica Popolare Cinese l’interezza di Hong Kong – ossia la parte che era stata affittata per 99 anni nel 1898, più la Penisola di Kowloon che era invece stata conquistata manu militari. L’accordo prevedeva che, in cambio della cessione dell’intera colonia, Pechino mantenesse a Hong Kong il sistema giuridico-economico liberale per ulteriori cinquant’anni, ossia dal 1997 – anno in cui il trasferimento divenne operativo – al 2047.

La Hong Kong britannica non aveva un regime compiutamente democratico, ma nell’ultimo decennio furono varate riforme per garantire organi rappresentativi, e anche in precedenza i suoi abitanti avevano tutele giuridiche assenti nella Cina comunista. La prospettiva di finire sotto il dominio di Pechino spinse mezzo milione di persone a emigrare. Dal 1997, il rispetto cinese delle libertà di Hong Kong è stato continuamente messo in dubbio da varie iniziative del regime comunista, le quali hanno imposto un vaglio di Pechino sui candidati alle elezioni del territorio autonomo. Lo scorso giugno il tentativo cinese di imporre l’estradizione di residenti a Hong Kong verso i tribunali comunisti ha fatto scattare massicce e persistenti proteste da parte degli abitanti. Mentre la Cina concentrava truppe nelle vicinanze dell’ex territorio britannico, il Congresso americano ha varato l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, che prevede sanzioni per quei funzionari cinesi che dovessero reprimere i diritti dei cittadini di Hong Kong.

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Sfortunatamente l’Unione Europea si è dimostrata molto meno preoccupata per la sorte dei cittadini di un ex territorio britannico, limitandosi a una timida risoluzione dell’Europarlamento. Il 9 gennaio scorso la maggioranza giallorossa in Commissione Esteri alla Camera ha scelto di allinearsi a questa risoluzione, rigettando una proposta della Lega che puntava a una presa di posizione più esplicita. Si è così confermata la tendenza dei partiti di governo ad allinearsi con la Cina comunista in politica internazionale, come già dimostrato dall’adesione alla “Nuova Via della Seta” (avviata da Gentiloni e proseguita da Di Maio), dall’apertura al 5G cinese o dalle flebili reazioni all’attacco che l’Ambasciatore cinese rivolse ai parlamentari italiani “rei” di aver parlato con Joshua Wong, uno dei leader delle proteste di Hong Kong.

Non si può non guardare con preoccupazione allo slittamento dell’Italia verso la subordinazione a una potenza comunista e non democratica come quella cinese.


Paolo Formentini, deputato della Lega, è Vice-Presidente della Commissione Affari Esteri e della Delegazione presso l’Assemblea Parlamentare NATO.