Si fa sempre più scottante la questione “politica” dell’autorizzazione a procedere richiesta dal Tribunale dei ministri di Catania nei confronti dell’allora Ministro dell’Interno Salvini, in ordine al presunto reato di sequestro di persona aggravato (art. 605 codice penale) per il caso di Nave Gregoretti. Politica infatti, perché in effetti, a ben guardare, sembra esserci poco di giuridico in tutta l’intera vicenda, come ha argomentato Carlo Nordio, nella sua intervista a “Italia Oggi” del 9 gennaio 2020. A partire dalle reiterate richieste della maggioranza di fare slittare il voto in Giunta per le immunità, già calendarizzato per il 20 di gennaio, ad un momento successivo alle elezioni regionali dell’Emilia Romagna e della Calabria. Per il timore – non se ne fa mistero – che l’eventuale decisione a favore dell’autorizzazione a procedere possa avere ripercussioni sugli esiti elettorali, a beneficio del sen. Salvini e del suo partito.

La vicenda ricalca, in modo quasi speculare, il caso di Nave Diciotti. Con la differenza che per Nave Diciotti, la Procura della Repubblica di Catania aveva chiesto l’archiviazione del procedimento sostenendo che, seppur in teoria il reato avrebbe potuto configurarsi a carico dell’ex Ministro Salvini, egli aveva agito in virtù dei suoi poteri ministeriali e, dunque, in presenza di una legittima causa di giustificazione. Per Nave Gregoretti, invece, la Procura di Catania aveva chiesto, addirittura, l’archiviazione del procedimento per “infondatezza” della notizia di reato. Ma ancora una volta, il Tribunale dei Ministri (peraltro nella identica composizione del caso di Nave Diciotti), ha ribaltato la ricostruzione della Procura formulando l’ipotesi accusatoria, secondo la quale il sen. Salvini, nella sua qualità di Ministro dell’interno, avrebbe abusato dei suoi poteri e privato della libertà personale 131 migranti di varie nazionalità dalle prime ore del mattino del 27 luglio 2019 sino al pomeriggio del successivo 31 luglio 2019.

Il reato contestato, sequestro di persona aggravato (si rischia dai 3 ai 15 anni di reclusione), è quantomeno dubbio. Soprattutto incongruo. A cominciare dal fatto che non si tratta di libertà personale ma, semmai, e a tutto concedere, di libertà di circolazione. Diversamente, se ne dovrebbe desumere che quando un vigile ti sbarra la strada non facendoti passare, ti sequestra… Se i migranti si fossero diretti altrove, fuori dall’Italia, chi infatti mai li avrebbe fermati?

Ma non è questo il tema. Sotto quel pretesto, la vicenda mostra tutta la sua paradossale dimensione costituzionale. A partire dal fatto che per la Costituzione italiana, art. 95, è sempre e soltanto il Presidente del Consiglio a dirigere la politica generale del Governo e ad esserne responsabile, innanzitutto di fronte al Parlamento. E proprio in attuazione di tale potere di direzione, il Premier può, se del caso, anche sospendere l’adozione di atti politici o amministrativi da parte dei Ministri competenti, investendone il Consiglio dei Ministri (art. 5, comma 2, lett. c della legge n. 400 del 1988). Difficile immaginare, per le ragioni dette, che l’allora Ministro Salvini, agendo in completa autonomia, abbia potuto rendersi autore del gravissimo reato, senza che si fosse mai formalizzata – né durante, né dopo quei fatidici cinque giorni di luglio – neppure una presa di distanza rispetto al suo operato da parte del Premier e dell’intero Governo. Anche perché – ce lo insegna il codice penale (art. 40, comma 2) – “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

Merita ricordare che la vicenda Gregoretti si sbloccò, con il conseguente sbarco delle persone presenti sulla Nave, al momento in cui, a seguito delle varie interlocuzioni a livello internazionale, condotte anche dal Premier e dal Ministro degli affari esteri, si era venuta a manifestare la disponibilità, da parte di alcuni Stati, ad ipotesi di distribuzione dei migranti. Il che non fa che evidenziare la natura collegiale delle scelte di fondo adottate nella gestione Gregoretti.

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Ma, aldilà della vicenda concreta, le implicazioni di un’autorizzazione a procedere sarebbero paradossali – anzi aberranti – sotto il profilo del principio della separazione dei poteri. Perché significherebbe negare dignità autonoma delle scelte politiche e assoggettarle alla tutela giudiziaria. Come dire che tutto, anche la politica, sta sotto. Con la conseguenza che, d’ora in poi, le autorità di governo, per non rischiare di essere sottoposte a procedimento penale, dovrebbero far entrare in Italia, unico Paese del genere al mondo, incondizionatamente chiunque, pur privo di documenti e non identificato, si presentasse alle frontiere.

Ma che l’atto politico non sia sindacabile dai giudici non è un orpello, o un privilegio di casta, che viola il principio di uguaglianza. È uno dei pilastri della separazione dei poteri su cui si è fondato tutto il moderno costituzionalismo. Il sindacato giudiziario sull’atto politico – a meno ovviamente che non si tratti di atti eversivi dell’ordine costituzionale – trasforma gli atti giudiziari in atti, essi stessi, politici. Aprire ad una “prima” del genere sarebbe davvero molto pericoloso per la deriva illiberale che ne potrebbe derivare. Ecco perché la questione meriterebbe di essere portata, quanto prima, di fronte alla Corte Costituzionale che potrebbe giudicare se non si sia davvero in presenza di un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, gigantesco e senza precedenti. Servirebbe pure a decontaminare il clima del voto, sul quale grava un’ombra assai inquietante per un sistema democratico: far fuori, non per via politica ma per via giudiziaria, l’ex alleato di governo, oggi avversario.


La Prof.ssa Ginevra Cerrina Feroni, ordinaria di Diritto costituzionale, è Consigliere scientifico del Centro Studi Machiavelli.