Il cancro ha fiaccato e poi ucciso, in poco più di sei mesi, Roger Scruton, uno dei più grandi pensatori contemporanei. E lo ha fatto con quella tragica efficienza che per un’intera vita ha accompagnato il professore inglese. Un angosciante e crudele contrappasso.

Scruton è morto ieri, all’età di 75 anni, dopo aver infatti passato un’intera vita a difendere, favorire e divulgare i principi cardini del conservatorismo attraverso una produzione pubblicistica tanto poliedrica, efficace e feconda da non poter essere in alcun modo reclusa in canoni asfittici. Da «reazionario e anticonformista» a «tuttologo illiberale», sono state tante le definizioni che nel corso degli anni gli sono state affibbiate con spietato e altezzoso sarcasmo dai critici in servizio permanente effettivo.

Proprio per questo mi avvicinai a lui per vie traverse, incuriosito dal fatto che si trattasse di una personalità capace di esprimere una visione del mondo e dei principi a me vicini, utilizzando però una originale versatilità culturale e una nettezza di contenuti tale da provocargli più nemici che amici.

Egli è stato compositore musicale ed editore, accademico e giornalista, conferenziere, agricoltore, enologo e mille altre cose. Una bulimia che non si è dunque persa in mille rivoli ma che, invece, ha sostenuto la strutturazione di un pensiero capace di produrre per esempio più di cinquanta libri sui temi più disparati: dall’estetica al sacro, dalla letteratura alla filosofia, dalla poesia all’educazione e alla scuola.

Sono ora in tanti a ricordare la sua prima battaglia pubblica, quel suo ruolo attivo durante la Guerra Fredda, i finanziamenti agli anticomunisti e i seminari nella plumbea Praga sommersa dalla barbarie sovietica. E come in una sorta di profetico richiamo alla terra, di chiusura del cerchio, una delle sue ultime uscite pubbliche è stata il 3 dicembre scorso quando, già fortemente debilitato dalla malattia e portato in carrozzella, si è recato presso l’ambasciata ungherese a Londra per essere insignito dal Presidente Viktor Orban della Croce del Comandante con Stella dell’Ordine al merito della Repubblica d’Ungheria.

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Egli è stato soprattutto un apologeta dello Stato-nazione (senza mai precipitare in grette derive radicali) e un sostenitore – non solo della Brexit – ma del superamento dell’Unione Europea. Il suo reiterato appello alle classi dirigenti esortandole alla difesa delle specificità e delle differenze contro l’indifferentismo e il relativismo aveva come obiettivo recondito quello di salvaguardare il baluardo dello Stato-nazione. Garanzia primaria dell’ordine civile e politico e forma giuridica all’interno della quale si alimenta e si sostanzia la naturale indole conservatrice che «è una proprietà acquisita delle società umane, ovunque si trovino», e lezione spirituale che «parla ai vivi, ai morti e ai non nati».

Rifiutare questa idea nazionale e, al contempo, essere ossessivamente lusingati da visioni ecumeniche e centripete ci fa sprofondare nell’oicofobia, neologismo da lui concepito per definire il nostro ripudio degli usi, delle consuetudini, delle tradizioni, del buon senso; vale a dire, dei pilastri su cui si reggono le comunità coese, quelle in cui coscienza identitaria e cultura dell’appartenenza hanno la forza necessaria per poter rinsaldare il contratto tra cittadino e istituzioni.


Luigi Iannone è in Italia il massimo studioso dell’opera di Roger Scruton, cui nel 2018 ha dedicato una biografia intellettuale. Il suo ultimo libro è “Il pensiero ribelle. Controstoria della filosofia politica“.