In Libia i precedenti governi italiani hanno scelto di stare dalla parte sbagliata, quella di Fayez al-Serraj e questo lo si era già detto con ampio anticipo e in più occasioni.

La retorica del “supporto alla popolazione libica” e della “mediazione” più volte espressa dall’Italia è andata di pari passo con una predilezione per Tripoli in quanto governo supportato dall’Onu e “riconosciuto dalla comunità internazionale”, mentre nel frattempo Haftar si agganciava ad alleati come Egitto, Emirati, Arabia Saudita e Russia.

È plausibile che il sostegno di Roma all’esecutivo islamista di al-Sarraj, al di là degli interessi italiani in loco, non fosse altro che l’eredità di una strategia atlantista fallimentare che trova origine in quelle “Primavere Arabe” che di primaverile hanno tra l’altro mostrato ben poco.

All’epoca, infatti, l’amministrazione Obama puntò su una serie di esecutivi guidati dai Fratelli Musulmani che dovevano andare a rimpiazzare i regimi in Tunisia, Egitto, Libia e Siria, ma di fatto poi le cose andarono diversamente. Era prevedibile che il sostegno all’islamismo politico in Libia non avrebbe portato a nulla di buono e le ragioni erano diverse: dalla presenza di milizie islamiste di varia estrazione e signori della guerra tenuti assieme prettamente da interessi particolari (oltre che dalla contrapposizione ad Haftar) all’arruolamento di personaggi improponibili legati a gruppi qaedisti tra le milizie fedeli a Tripoli, tra cui Mahmoud Ben Dardaf, terrorista ricercato dal governo della Libia orientale per l’assalto al consolato statunitense di Bengasi del settembre 2012. Bisognava inoltre chiedersi se fosse veramente al-Sarraj a controllare le milizie o se non fossero invece le milizie a controllare lui.

Il fatto che Tripoli e Misurata fossero legate a quell’area ideologico-religiosa vicina ai Fratelli Musulmani era noto, non a caso il principale sostegno ricevuto viene proprio da Qatar e Turchia, i due sponsor per eccellenza dell’organizzazione islamista. Non a caso al-Sarraj, appena se l’è vista brutta, ha aperto le porte a Erdogan, che si è precipitato; una Turchia non certo esempio di democrazia e tolleranza, la stessa Turchia che durante il conflitto siriano inviava armi e rifornimenti ai jihadisti e li curava nei propri ospedali. Purtroppo però c’è chi a livello istituzionale è ancora convinto che bisogna dialogare con l’islamismo politico di quell’area e i risultati sono oggi sotto gli occhi di tutti. Erdogan manda le truppe e l’Italia molto probabilmente resterà a guardare e a bocca asciutta. Erdogan potrà così utilizzare i porti della Libia per “aprire il rubinetto” e riversare migranti verso le coste europee, come già fatto da est. Un disastro su tutta la linea e una situazione che non permette più mezze misure e posizioni ambigue.

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Giovanni Giacalone è senior analyst presso l’Italian Team for Security, Terroristic Issues and Managing Emergencies (Itstime) dell’Università Cattolica di Milano e presso il Center for Strategic Analysis (Kedisa) di Atene.

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Ricercatore del Centro Studi Politici e Strategici Machiavelli. Laureato in Sociologia (Università di Bologna), Master in “Islamic Studies” (Trinity Saint David University of Wales), specializzazione in “Terrorism and Counter-Terrorism” (International Counter-Terrorism Institute di Herzliya, Israele). È analista senior per il britannico Islamic Theology of Counter Terrorism-ITCT, l’Italian Team for Security, Terroristic Issues and Managing Emergencies (Università Cattolica di Milano) e il Kedisa-Center for International Strategic Analysis. Docente in ambito sicurezza per security manager, forze dell’ordine e corsi post-laurea, è stato coordinatore per l’Italia del progetto europeo Globsec “From criminals to terrorists and back” ed è co-fondatore di Sec-Ter- Security and Terrorism Observation and Analysis Group.