Quello che segue è un estratto dal libro “Sovranismo. Le radici e il progetto“, edito da Giubilei Regnani.


La cultura dominante fotografa l’identità come un principio di conservazione o di regresso. Pur non potendo negarne totalmente il valore e pur producendo anch’essa, sotto mentite spoglie, una «politica delle identità», la sinistra vede in questo concetto, applicato ai popoli e alle comunità, la matrice prima di ogni forma di conflitto, di razzismo e di discriminazione. Per questi signori l’identità deve essere il più possibile confinata in una labile sfera individuale, superando progressivamente ogni retaggio che possa investire la sfera collettiva. Le uniche identità collettive che i progressisti esaltano sono quelle che derivano da lotte comuni per affermare diritti individuali o sociali, mentre i profeti del neoliberismo le ammettono solo come manifestazioni di tendenze di consumo. Tutte le altre, comprese le identità di genere, la differenza tra uomo e donna, sono sotto attacco.

Innanzitutto bisogna rimarcare che le identità non sono necessariamente delle “forme statiche”: sono chiuse in se stesse e regressive quando sono deboli e residuali, invece quando sono forti e consapevoli sono un’energia vitale e dinamica. Ma soprattutto le identità, sia individuali che comunitarie, sono fondamentali per definire la persona umana. Per dirla con Hannah Arendt, «la concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana. […] Se un individuo perde il suo status politico, dovrebbe trovarsi, stando alle implicazioni degli innati e inalienabili diritti umani, nella situazione contemplata dalle dichiarazioni che li proclamano. Avviene esattamente l’opposto: un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile». Cosa rimane di una persona privata, della propria identità di genere, di famiglia, di cultura, di lingua, di religione e di comunità nazionale? Solo una pallida ombra omologata, facilmente manipolabile e perciò incapace di andare oltre se stessa.

L’identità, infine, non impedisce di accedere a valori universali, anzi è la porta per incarnare, non come vuota retorica, questi valori. È proprio della cultura classica, ma in generale di tutta la cultura tradizionale, considerare il valore universale dell’essere sé stessi e del dare una forma a sé stessi, alla propria comunità e allo spazio in cui si vive. In questo c’è la differenza tra universalismo e globalismo. Il primo significa attingere a valori universali partendo dalla proprio identità, senza rinnegarla ma sviluppandola in tutte le sue potenzialità superiori, il globalismo significa invece eliminare le differenze tra le persone e tra i popoli omologandoli e livellandoli verso il basso, trasformandoli tutti in semplici produttori e consumatori di merci.

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Le identità generano appartenenze comunitarie e, nella loro spinta dinamica e creatrice, progetti politici e sociali, sono il retroterra esistenziale della scelta politica dell’amico e del nemico, delle diverse e contrapposte “concezioni del mondo” (Weltanschauung) e quindi della nascita del conflitto. Questo è il terrore, o se volete l’alibi, di tutti coloro che demonizzano le identità. Eppure non si comprende perché il conflitto venga esaltato come espressione di libertà quando riguarda la competizione sul mercato, mentre viene visto come origine di ogni male quando si sposta sul terreno dei valori e delle appartenenze comunitarie. In realtà anche i conflitti, come le identità, sono espressioni ineliminabili della condizione umana: possono degenerare, portando al tribalismo e alla faida, oppure possono diventare dei fattori creativi, generando eccellenze e positiva competizione.

La nazione dal punto di vista politico occupa un posto privilegiato tra queste appartenenze comunitarie generate dall’identità. Perché è un punto di sintesi dei principali caratteri identitari; perché può avere la forza morale e materiale di generare un progetto storico; perché si identifica con uno Stato che definisce confini, cittadinanza e istituzioni politiche; perché sulla comunanza di lingua, di storia e di cultura permette di costruire l’esperienza autentica e vissuta della democrazia. Come scrisse Giano Accame: «Per i suoi contenuti non meramente materiali ma di civiltà la Nazione è la comunità più organica e ampia entro la quale la funzione di indirizzo politico riesca a giungere ovunque con maggiore efficacia. Questa è la sfera comunitaria ove realismo e amore, concretezza e sogno, possono trovare il massimo di coincidenza».

Se la propria identità viene ritenuta un valore, se appartenere a un popolo e a una comunità è imprescindibile per la propria pienezza esistenziale, è inevitabile individuare una sovranità in grado di difendere e rappresentare questa identità e questa appartenenza. Per questo l’identitarismo spinge verso il sovranismo.


Gianni Alemanno è ex Ministro delle Politiche Agricole e Sindaco di Roma.