Stefano Bottoni, autore del saggio Orbán (un despota in Europa), appena edito da Salerno editrice, è uno storico italo-ungherese, uno dei cosiddetti “cervelli in fuga”, oggi fortunatamente rientrato (chissà per quanto) nelle patrie accademie. Ogni libro di storia che si concentri sul passato presente (e su personaggi ancora vivi) rischia di cadere nella cronaca più o meno dettagliata dei fatti o, viceversa, in una condanna-apologia senza appello del biografato. Stefano Bottoni riesce nella non facile impresa di evitare entrambi gli scivoloni e ci consegna un saggio di alta divulgazione storica (merce assai rara nello Stivale) che tenta di spiegare le ragioni dell’ascesa di Viktor Orbán quale leader e simbolo di un’altra Europa, quella che non si riconosce completamente (o non si è mai riconosciuta) nei valori fondanti del processo di integrazione europea (le quattro libertà di merci, persone, servizi e capitali).

L’A. ammette senza mezzi termini di riconoscersi nel Verstehen diltheyano e di non essere particolarmente interessato all’Erklären “liberale” (spesso e volentieri sinonimo del “Verurteilen”, cioè di condanna valoriale di ciò che non è quantificabile). Dobbiamo quindi spogliarci delle nostre simpatie verso l’una o l’altra posizione (ontologicamente irriducibili) per relativizzare la figura del “despota” ungherese e portarne a compimento un’analisi improntata allo storicismo democratico. Il convitato di pietra del mondo pubblicistico italiano è la sinistra liberale che fa opinione pubblica (rumorosa), ma che tuttavia non riesce a comprendere le criticità della globalizzazione senza scivolare sul piano moralistico.

Il saggio di Bottoni è diviso in otto lunghi capitoli, introdotti da una lunga e illuminante prefazione, dove l’A. ci tiene a specificare che non intende soffermarsi sulle parole di Orbán, ma ricostruire la genesi dei fatti con un impianto di carattere sociologico. Perché è emersa questa figura “illiberale” in uno dei paesi oltre cortina ritenuti più “evoluti”? Perché è nata la “società incivile di massa” (fortunata espressione che l’A. riprende da un saggio di Kotkin di un decennio fa)? Qual è il nesso con la “open society” di Soros? La risposta è contenuta nella biografia dell’ascesa di Orbán, da un lato, e nel fallimento della classe dirigente postcomunista e tardocomunista, dall’altro.

Il primo capitolo si concentra sulle origini politiche del leader ungherese, figlio del socialismo ma ben presto rivolto verso una democrazia “di libere convinzioni”. Il secondo capitolo esplora le vie del liberalismo atipico, letto attraverso la filigrana del Manifesto democratico e del rapporto fra ebrei e ungheresi all’indomani del postcomunismo. Il terzo capitolo si concentra sull’emersione di Fidesz e sulla progressiva brutalizzazione della lotta politica a cavallo del nuovo millennio. Il quarto capitolo analizza la svolta “plebea” successiva alla crisi del 2007-8. Il quinto capitolo spiega le ragioni della vittoria orbaniana sulla scorta dell’antiamericanismo (e antioccidentalismo). Il sesto capitolo abbandona la cronaca e si concentra sul sistema della cooperazione nazionale (la “dittatura costituzionale”). Il settimo capitolo spiega il passaggio dall’egemonia al dominio nell’Ungheria degli ultimi anni attraverso le questioni più spinose (rapporti con la Germania, referendum sulle quote di migranti, il caso Brexit e i rapporti coi social media). L’ottavo capitolo elenca le diverse sfaccettature del “mondo possibile” orbaniano, ritornando alla questione ebraica già sollevata nel secondo capitolo (l’antisemitismo sionistico del leader di Fidesz). Le conclusioni spiegano l’emersione di Orbán quale espressione della mancata occidentalizzazione della società ungherese (p. 279).

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Ammesso e non concesso che Orbán sia una “patologia” sistemica del capitalismo liberale, quale sarebbero i modi per curarla? L’A. propone due ricette: un mutamento dell’assetto internazionale e una crisi economica interna, capaci di originare la “marea democratica” del cambiamento. Un auspicio che abbandona il reame della storia e si avventura in quello delle previsioni valoriali. Il saggio di Bottoni resta un lavoro molto chiaro, capace di fornire una costruzione puntuale del “despota” Orbán, tuttavia, come ogni fenomeno storico ancora in essere, è difficile fornire un quadro conclusivo del personaggio. L’A. tiene a evidenziare quanto sia importante la comprensione dei personaggi della storia, anche se talora scivola su alcuni giudizi di valore che esulano dalla comprensione “vitale” richiamata nell’introduzione. Essa esige uno sguardo laterale sulle cose, che relativizzi il fenomeno storico e che, tuttavia, sia capace di immortalarne la sua irriducibile unicità.

È giusto segnalare il tema dell’antisemitismo, un po’ perché qui da noi è la cartina al tornasole della conventio ad includendum di ogni formazione politica che si rispetti, un po’ perché il caso ungherese, se adeguatamente compreso (cioè storicizzato), può spiegare molte delle annose e noiose diatribe che periodicamente riempiono i rotocalchi della nostra stampa d’informazione. Bottoni affronta il tema della (presunta) continuità “antisemita” di Orbán e Fidesz con il periodo interbellico a pagina 56 ponendo alcune domande: qual è il nesso fra il retaggio antisemita interbellico e i rapporti (buoni) con lo Stato di Israele e con influenti spezzoni del mondo ebraico ortodosso americano? Qual è il nesso fra mondo liberal e il rinascimento ebraico nella capitale ungherese? La risposta (gramsciana) dell’A. è: la lotta per l’egemonia culturale e il “dominio”. Il che comporterebbe una “razionalizzazione” dell’antisemitismo: gli elementi biologici tradizionali sono stati traslati su chiave “mondialista”. Si colpirebbero quindi “qualità senza uomini” (per rivoltare il noto titolo del capolavoro musiliano): la finanza, l’assenza di confini, l’astrattismo atomistico liberale, ecc.

La tragedia degli ebrei ungheresi non religiosi (la stragrande maggioranza) – chiosa Bottoni – sarebbe quella di vivere in un mondo che prescrive identità e comportamenti ai cittadini (p. 241). Ma sostenere che l’ebraicità non sia una identità, bensì una condizione (più o meno scelta), dimostra quanto l’A. sia valorialmente figlio del liberalismo atomistico che non genererà forse “despoti”, ma forse produce macchine prive di sentimenti.


Vincenzo Pinto, storico, è direttore della rivista “FreeEbrei” e dell’omonima casa editrice.