Uno dei mantra del pensiero liberal-progressista predica il sostanziale disinteresse della gente “di destra” alla dimensione culturale, avviluppata in una spirale di stereotipi, credenze, superstizioni. Per certo, il mondo politico “di destra” avvicendatosi all’indomani del 1945 non ha fatto granché – vuoi per ingenuità o per spregiudicata miopia – per smentire questo cliché, rendendosi anzi complice (per subalternità pressoché accettata) del progressivo annidamento e consolidamento del programma egemonico gramsciano-marxista in alcuni gangli vitali della società (istruzione, informazione, giustizia). Per questo va senz’altro salutata con favore la presa di coscienza che, in tempi recenti, va sempre più diffondendosi negli ambienti “di destra” sulla necessità di costruire una rete culturale che sorregga l’azione politica.

Ciò non basta ancora, però, per arginare il pervicace negazionismo ovvero la schizzinosa “scomunica” (allorché si è costretti a prendere atto dell’esistenza dell’“altro”) da parte degli epigoni di quella intellighenzia che poggia su posizioni consolidate di rendita ideologica. Tra questi, spicca Corrado Augias, che in tempi recenti ha sancito (nel corso delle trasmissioni DiMartedì e Agorà) che «essere di destra è facile», in quanto si tratterebbe di un pensiero «più semplice», «più vicino alle spinte istintive delle masse», mentre «quelli di sinistra giocano su un terreno in cui la conoscenza degli argomenti è fondamentale».

Si è già discusso molto sulla palpabile quanto grossolana distinzione antropologica tra “quelli di sinistra”– che seguirebbero la “testa” – e “quelli di destra” – i quali sarebbero invece incapaci di concepire qualcosa che vada oltre alla loro “pancia”, per cui non è il caso di dilungarsi. Un altro aspetto, invece, merita di essere approfondito. Infatti, Augias ha colto, seppur in modo banale, la differenza di fondo.

Se per il dizionario Treccani l’istinto è «l’insieme di quei comportamenti altamente specifici ed ereditarî, organizzati in sequenze ordinate (in parte modificabili attraverso l’apprendimento), che, scatenati e indirizzati da stimoli interni o esterni, hanno come fine immediato la rimozione di una tensione somatica o di uno stato di eccitazione, e concorrono alla conservazione dell’individuo o della specie», mentre per argomento deve intendersi «ciò che si adduce a sostegno di quanto si afferma», si potrebbe evincere che l’approccio “di destra” alla conoscenza è immediato e risponde a comportamenti conformi a massime d’esperienza al fine della conservazione individuale e comunitaria, mentre quello “di sinistra” è di tipo mediato, in cui l’elaborazione concettuale precede l’esperienza storico-sociale stessa.

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Quindi è davvero semplice essere “di destra”? Non proprio. Comprendere gli istinti non equivale a cedere alle “spinte animali” che – né più né meno – segnano tutto il genere umano, ma significa invece cercare di sublimarli. Inserirsi nel solco di una continuità comporta capacità di adattare quel nucleo fondamentale (religioso e/o filosofico e/o metafisico) che distingue l’uomo dall’animale, poiché non ricollega ogni comportamento a un bisogno specifico, ma a un “principio di chiusura” dell’intero vissuto.

D’altro canto, è così davvero complicato essere “di sinistra”? Tante possono essere le affermazioni e altrettante possono essere le argomentazioni a sostegno. Questa proliferazione non coincide tuttavia necessariamente con la proposizione delle corrette affermazioni e delle corrette argomentazioni, che si misurano sul campo, attraverso l’analisi e la sperimentazione. Quando però il pensiero diviene sempre più astratto e piegato all’agenda politica, l’analisi cede il passo alla narrazione, insensibile alle proprie ricadute negative. Del resto, la mente è incline al “velo di Maya” delle illusioni (se non delle vere e proprie utopie). Perso il contatto con la realtà quotidiana, talora annegato nello specchio narcisistico, diventa fondamentale la «conoscenza degli argomenti», unico dispositivo residuo per sostenere una propria validità.

In breve, si può dire che il pensiero “di destra” coglie il senso tragico e eterno della Storia umana, mentre quello “di sinistra” si staglia sull’orizzonte utilitaristico/meccanicistico e momentaneo. A ciascuno il suo, secondo la sensibilità che gli è propria. Per questo, c’è chi non si sente affatto sminuito nel riconoscersi nelle «spinte istintive», anzi, proprio grazie ad esse si oppone all’idea di post-uomo, sradicato in ogni possibile declinazione di identità, che le «argomentazioni» del pensiero progressista annunciano.


Stefano Beccardi, avvocato, ha un Master in Consulenza politica e marketing elettorale (Eidos).

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