I frequentatori delle librerie avranno notato, negli ultimi mesi, il fiorire di instant book e smilzi pamphlet che lamentano la disastrosa condizione in cui versano la scuola italiana e il suo sistema scolastico in generale. Gli autori di questi “agili ma densi” (sic) libelli, certificano, nero su bianco, la loro sorpresa di fronte al disfacimento del sistema educativo nazionale, deplorando le umilianti condizioni in cui si trovano a operare i docenti della scuola italiana.

I mali che affliggono il sistema scolastico sono noti: livellamento verso il basso, egualitarismo esasperato, burocratizzazione della professione di insegnante. Tuttavia, questi stessi mali, oggi denunciati in libri e giornali, erano considerati “conquiste di civiltà” solo quarant’anni fa, all’indomani della grande “festa” meglio nota come Sessantotto.

Gli “autorevoli” opinionisti, sociologici e storici, che oggi assistono affranti ai disastri della scuola italiana, sono gli stessi che a questo sfacelo hanno contribuito con zelo rivoluzionario negli anni passati. La soluzione alle patologie che affliggono la scuola non può quindi venire da questi “pensatori”. Sarebbe come incaricare un piromane di spegnere l’incendio che lui stesso ha appiccato.

In realtà, subito dopo il Sessantotto, i cosiddetti “maestri” riconosciuti del pensiero progressista si sono impegnati, attraverso riforme ad hoc e in modo trasversale rispetto ai governi di centro-destra o di centro-sinistra, nell’obiettivo di demolire il possente edificio gentiliano che per molti decenni ha consentito alla scuola italiana di rappresentare un faro di civiltà rispetto agli altri sistemi educativi, in Europa e nel mondo.

Ci si è accaniti in modo particolare contro i licei, accusati di essere “classisti” e “discriminatori”, laddove “obsoleti” concetti come fatica, sacrificio, merito, impegno, autorità, selezione, dovevano essere sostituiti con i nuovi feticci dell’egualitarismo militante, come “didattica dell’inclusione”, “scuola che non lascia indietro nessuno”, “scuola dell’accoglienza diffusa”, “didattica dei bisogni educativi speciali”.

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Da qui per esempio il tabù delle bocciature, che i docenti non possono più assegnare, specie nelle ex scuole medie, ridotte ormai ad accampamenti di fortuna sotto tutti i punti di vista, in quanto contrarie allo spirito di eguaglianza imposto per decreti ministeriali, e perfino penalizzanti ai fini dei contributi statali che la scuola riceve. Da qui anche la medicalizzazione degli insuccessi scolastici, laddove il fallimento dell’alunno non dipende dalle sue scarse capacità o della sua deficitaria volontà, quanto da problemi esterni, come i professori troppo severi (quindi da aggredire), da una situazione socio-famigliare “traumatica”, da un “vissuto” esistenziale “problematico” e tutto il corollario socio-pedagogico alla moda.

L’istruzione, scientemente erosa dai cosiddetti “progetti”, molti dei quali svolti in alternativa alle “noiose” lezioni in classe, lascia quindi spazio all’intrattenimento. Le frustrazioni scolastiche vengono bandite e tutto diventa facile, lineare, senza “traumi”.

Conseguenze? Livellamento verso il basso, anche dei migliori, i rari casi di eccellenza scolastica visti con sospetto e penalizzati, meritocrazia azzerata, messaggio “educativo” sull’inutilità di impegnarsi nello studio poiché l’uguaglianza dei risultati è garantita dal sistema. Come è stato giustamente osservato, il populismo progressista, tanto ignorante quanto indifferente, per fare un esempio, alle riflessioni di Gramsci sul liceo classico, ha illuso i ceti poveri con la scorciatoia del titolo di studio “per legge”, come fosse un “diritto” e non come una conquista personale. L’ascensore sociale, che si voleva più mobile, si è invece bloccato, ingessando in una palude di mediocrità tutti quanti, ricchi e poveri, intelligenti e meno dotati.


Abyssus (pseudonimo) è un professionista che opera nel settore culturale ed editoriale italiano