“Il sovranismo è una bufala da mettere da parte, è un’idea stupida così come sono stupidi quelli che ci credono”. Così Silvio Berlusconi qualche settimana fa si è espresso a proposito di quel variegato mondo culturale, identitario e politico che va sotto il nome di “sovranismo”.

Si tratta di una sentenza che intende equiparare il sovranismo ai vecchi nazionalismi ottocenteschi o, peggio, ai nazionalismi totalitari del Novecento. In questo, il leader di Forza Italia converge involontariamente con i vari Lerner, Saviano e l’arcipelago che ruota attorno a “Repubblica”, nel dipingere la protesta dei ceti popolari e della piccola borghesia europea quale semplice rigurgito nazista e razzista.

Al contrario, il leader russo Vladimir Putin ha sostenuto che “il liberalismo è obsoleto, e che l’ideologia liberale ha fatto il suo tempo”. Molto lucidamente, Putin motiva questo giudizio con il fatto che il liberalismo classico non è riuscito a fare i conti, culturalmente e politicamente, con l’ondata migratoria degli ultimi decenni, illudendosi che il multiculturalismo sarebbe riuscito ad assorbire culture antitetiche tra loro grazie all’azione omogeneizzante del liberismo e del consumismo.

Si sarebbe dovuta avere cioè, almeno nelle intenzioni dei liberali, una società sì multiculturale ma unita nel primato dell’economico. Così non è stato, perché solo identità deboli possono essere sedotte dalle sirene dei beni di consumo. Al contrario, identità rigide e cristallizzate dalla religione, come per esempio quella islamica, sono impermeabili a questo tipo di suggestioni.

Si tratta dello stesso errore in cui sono incorsi i comunisti a inizio anni Novanta. Salutando estasiati la globalizzazione nascente, con il suo corollario di flussi migratori, i comunisti erano convinti che la solidarietà “di classe” tra tutti i proletari, autoctoni e nuovi arrivati, avrebbe cementato la “coscienza di classe” proletaria in senso anticapitalistico. Anche qui, seppur di segno opposto, il primato dell’economico avrebbe avuto il sopravvento su tradizioni, usi, costumi e culture opposte tra loro.

D’altra parte, l’antropologia economicistica, che unisce e caratterizza sia liberismo sia comunismo, converge nel pregiudizio per cui gli esseri umani sono monadi isolate tra loro e motivate esclusivamente da logiche economiche. Al contrario, l’essere umano è prima di tutto un animale che cerca un “senso” alla propria esistenza, trovandolo via via nella tradizione, oppure nella religione, oppure a volte anche nell’economia. Il problema del liberalismo è che esso vuole farsi universale, come lo fu il comunismo. In ragione di ciò, il liberalismo ritiene che il contesto (la tradizione in cui un essere umano è immerso) sia del tutto ininfluente e che lo stesso identico modello sia replicabile a ogni latitudine e in ogni epoca.

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Se l’immigrazione di massa ha infranto i sogni comunisti di una società all’insegna del “proletari di tutto il mondo unitevi!”, come si può notare dal fatto che politicamente le classi operaie e povere si sono spostate in massa a destra, la stessa cosa è avvenuta negli ultimi anni con il liberalismo. La globalizzazione ha mandato in crisi uno dei capisaldi del dogma liberale: l’unione assiomatica tra libertà economica e libertà politica. Là dove c’è democrazia, ci sarà per forza libertà economica; là dove c’è intrapresa privata, ci sarà per forza democrazia: così sostenevano i liberali.

Ora, già nei decenni scorsi questa teoria ha svelato tutti i suoi limiti, come si può evincere nel caso cileno, dove il regime di Pinochet impostò una serie di politiche economiche decisamente liberiste, mostrando che il libero mercato poteva benissimo convivere con una dittatura. Ma proprio nell’ultimo decennio, il caso della Cina comunista e liberista ha “spiegato” al mondo che il concetto di “nazione” non può essere obliterato da teorie economiche che di volta in volta mutano così come fanno le mode dei vestiti.

Il sovranismo, e quello cinese ne è un esempio davvero clamoroso, rappresenta proprio tutto ciò: la sfera dell’economico che viene subordinata al primato del politico, il quale si regge su un concetto non emendabile, quello di nazione. Tramontata l’utopia della globalizzazione dei popoli, occorre ora fare i conti con la realtà.


Abyssus (pseudonimo) è un professionista che opera nel settore culturale ed editoriale italiano.