A ben vedere, l’aspetto più preoccupante della motivazione dell’ordinanza con la quale il G.i.p. presso il Tribunale di Agrigento ha rifiutato di convalidare l’arresto della sig.na Rackete per il reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) non è tanto l’individuazione di un preteso dovere – discendente da una fantasiosa interpretazione del diritto internazionale – di condurre i naufraghi nel porto ritenuto sicuro dai soccorritori; quanto, piuttosto, la pretesa di far prevalere il diritto internazionale sul diritto interno rilevante direttamente in sede di cognizione (in questo caso: cautelare), invocando il rango superiore che spetta al diritto internazionale nel sistema delle fonti e dichiarando così la condotta lecita (o anche, in gergo tecnico: giustificata, scriminata) ai sensi dell’art. 51 c.p.
È pur vero, infatti, che l’art. 117 co. 1 Cost. afferma che «la potestà legislativa è esercitata […] nel rispetto […] dei vincoli derivanti […] dagli obblighi internazionali»; ma, conformemente ad una consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, la magistratura ordinaria è tenuta, qualora ravvisi un contrasto tra una norma di rango primario (detto volgarmente: la legge) e una norma ad essa sovraordinata (come, ad es., una norma contenuta in un trattato internazionale), a sollevare questione di legittimità costituzionale, rimanendo viceversa esclusa la semplice “disapplicazione” la legge interna contrastante.
È la Corte costituzionale, infatti, l’unico organo al quale la Carta fondamentale affida il potere di sindacare le scelte del legislatore, che, in questo caso, tramite l’art. 11 co. 1 ter t.u. imm., si era inequivocabilmente espresso nel senso di affidare al Ministro dell’Interno il potere di vietare l’ingresso della Sea Watch 3 nelle acque territoriali italiane.
Se, dunque, tale scelta si riteneva contraria al diritto internazionale, l’ultima parola sul punto avrebbe dovuto essere pronunciata proprio dalla Corte costituzionale (per l’appunto: il giudice delle “leggi”).
E ciò, per una buona ragione: se, infatti, di conflitti tra maggioranza e minoranza è piena la storia di ogni democrazia costituzionale, è ovvio tali conflitti non possono essere risolti in una Agrigento qualsiasi, ma soltanto presso il Palazzo della Consulta; l’unico luogo, cioè, istituzionalmente deputato a prendere in considerazione non soltanto le ragioni di Antigone, ma anche quelle di Creonte – che, qui, detto per inciso, di ragioni parrebbe averne a bizzeffe.
Tant’è che, malignamente, ci si potrebbe domandare chi, tra Parlamento e magistratura, ha davvero paura della Costituzione.
Repetita Iuvant (pseudonimo) è un ricercatore accademico di scienze giuridiche
Pseudonimo. Ricercatore accademico di scienze giuridiche.
Corretto. Come è noto, la costituzione italiana ha scelto per il controllo di costituzionalità il sistema accentrato. Di fatto, però, non pochi giudici si comportano come se avessimo un sistema di controllo di costituzionalità diffuso (tipico degli ordinamenti anglosassoni). Il rimedio? Tecnicamente non esiste! E, d’altra parte, la stessa Corte costituzionale ha le sue responsabilità per aver spinto i giudici sulla strada della interpretazione costituzionalmente conforme. Quando si è accorta del danno è tornata ad enunciare il principio del controllo accentrato. Troppo tardi… ha distribuito il “kit del piccolo giudice costituzionale” a tutti i giudici, e ora non riesce a ritirare il giocattolo! Un’occhiata andrebbe anche data ai corsi di formazione per i magistrati: potrebbero apparire – proprio su questo tema – non proprio ortodossi.
[…] die Entscheidung des Gerichtshofs nicht an die Rackete, die, wie wir uns bitter erinnern, die Blockade verletzte und ein Kriegsschiff der Guardia di Finanza rammte, das mit Zustimmung von fünf anwesenden Abgeordneten der PD und der LeU das Leben von […]