Le spese militari in Arabia Saudita. Valutazioni comparative e prospettive future è il nuovo Dossier del Machiavelli, realizzato da Annalisa Triggiano, professoressa a contratto presso l’Università di Roma Tre.

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SOMMARIO ESECUTIVO

  • La spesa militare e in particolare l’acquisto di armamenti da parte dell’Arabia Saudita sono costantemente aumentati negli ultimi anni.
  • Ciò è avvenuto a causa delle innumerevoli minacce alle quali l’Arabia Saudita si sente sottoposta (ascesa dell’Iran, gruppi terroristici, instabilità di Iraq, Yemen e Siria).
  • L’Arabia Saudita è intervenuta in vario grado in Siria e Yemen, mostrando la volontà di diventare la nazione leader della regione anche, se necessario, tramite l’utilizzo della forza.
  • Il programma “Vision 2030” punta a localizzare internamente il 50% della spesa per la Difesa, incrementando l’autonomia dai fornitori occidentali e il know-how militare.
  • Le stime – nonostante le incognite legate alle conseguenze economiche dello scandalo Khashoggi – non prevedono alcun contenimento delle spese militari saudite. Esso potrebbe ipotizzarsi unicamente in caso di una profonda ristrutturazione delle Forze Armate, di una redistribuzione razionale della spesa pubblica sulla base di rigorosi procedimenti di auditing e monitoraggio all’occidentale, difficilmente realizzabili in concreto.
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    1. Le spese militari a livello globale e regionale

    Il 2 maggio 2018 è stato presentato a Stoccolma il Rapporto SIPRI, l’Istituto di ricerca internazionale di pace di Stoccolma. Il Sipri è un organismo indipendente che ha il compito di monitorare l’andamento e la distribuzione, in base a vari parametri, delle spese militari in tutto il mondo. Le spese militari indicate dall’Istituto concernono tutte le spese governative per le forze e attività militari, ivi compresi i salari, le spese operative, l’acquisto di armi e attrezzature, le costruzioni di infrastrutture logistiche militari, la ricerca e lo sviluppo, l’amministrazione centrale, il comando e il supporto. In queste pagine cercheremo di fare sinteticamente il punto sui dati, tralasciando qualsiasi implicazione e valutazione politica degli stessi. L’Istituto ha evidenziato che il totale della spesa militare mondiale, nel 2017, è salito a 1739 miliardi di dollari, aumentando dell’1,1% rispetto all’anno precedente:
    Gli analisti del Sipri spiegano questo impressionante livello di spesa – il più alto mai raggiunto dalla fine della Guerra Fredda – principalmente in base a due ragioni, di evidenza, per la verità, piuttosto palmare anche per il comune cittadino: da un lato un miglioramento globale delle condizioni di benessere economico dei singoli Paesi; dall’altro, un segnale per dare una risposta alla continua instabilità di alcune zone-chiave. Su scala macro regionale e a livello strategico, il dato significativo che si può osservare è un chiaro spostamento verso l’Oriente degli aumenti complessivi delle spese militari rispetto all’Area Euro-Atlantica.
    Concentrando le attenzioni della presente indagine verso l’Estremo e Medio Oriente non si può fare a meno di sottolineare che l’India ha speso 63,9 miliardi di dollari nelle proprie forze armate nel 2017, attestandosi a un aumento del 5,5 per cento rispetto al 2016 mentre le spese della Corea del Sud, pari a 39,2 miliardi di dollari, sono aumentate dell’1,7 per cento tra il 2016 e il 2017. La Cina è la nazione che ha segnato il maggior aumento in assoluto della spesa militare in un anno, 12 miliardi di dollari, nel 2017. La Russia, invece, è quella che la ha diminuita maggiormente, registrando un meno 13,9 miliardi di dollari.
    Notevoli, per il Medio Oriente, sono gli esborsi dell’Arabia Saudita. Nel Rapporto Sipri si precisa, a tale ultimo riguardo, che l’analisi dei rapporti sulla spesa totale militare del Medio Oriente del 2017 si profila come incompleta, a causa della mancanza di dati precisi inerenti al Qatar, alla Siria, agli Emirati Arabi Uniti e allo Yemen. Si tratta di un incremento stimato nel 9,2% in più rispetto al 2016. Gli Stati tradizionalmente ostili all’Arabia Saudita – nel Medio Oriente – non possono neanche lontanamente competere. L’IISS stima inoltre che l’Arabia Saudita ha speso per la sicurezza militare il 12,51% del PIL nel 2015, il 12,61% nel 2016 e l’11,30% nel 2017. Si tratta di un livello di spesa notevole per un Paese con molti problemi di arretratezza culturale e sicurezza interna e che ambisce a trasformarsi radicalmente entro il 2030. Non è facile avere un quadro chiaro ed obiettivo dei fattori per i quali l’Arabia Saudita ha raggiunto livelli di spesa così elevati. È però possibile fare il punto sulle eterogenee minacce alla sicurezza saudita che coinvolgono, da tempi più e meno recenti, anche alleati chiave del Regno, come gli Emirati Arabi Uniti e gli Stati Uniti. Tali situazioni politiche, considerate unitariamente, concorrono a determinare il massiccio aumento delle spese militari:
    – Minacce estremiste Is (ex ISIS) e AQAP
    – Instabilità interna legata alle tensioni tra Sunniti e Sciiti
    – Gli armamenti dell’Iran: i possibili acquisti di armi nucleari; l’implementazione dei sistemi missilistici balistici e da crociera. Da considerare, inoltre, i missili aria-mare che l’Iran sta acquisendo nel Golfo e nell’Oceano Indiano
    – Incertezza politica in Iraq
    – Instabilità della situazione siriana
    – La dispendiosa e sanguinosa guerra yemenita
    – Indebolimento di alcuni alleati ‘storici’ dei sauditi (Egitto e Giordania)
    – Tensioni e ambiguità diplomatiche più o meno latenti con la Turchia
    – Le oscillanti posizioni degli USA in tema di soluzioni che contribuiscano a garantire la sicurezza mediorientale
    Indebolimento delle capacità militari di Francia e Regno Unito
    Si tratta di una combinazione di minacce che porrebbero questioni di sicurezza enormi anche se l’Arabia Saudita non avesse necessità pari o superiori di attuare riforme nella sicurezza civile e nello sviluppo economico. Il quadro solo sinteticamente richiamato pone problemi soprattutto per le soluzioni a lungo termine: non si intravedono progressi nelle relazioni dell’Arabia Saudita con l’Iran e la Siria. Non vi sono ancora prospettive concrete di stabilizzazione dell’Iraq e non ve ne sono a proposito della fine della guerra in Yemen, sebbene in quest’ultimo caso gli Stati Uniti stiano chiedendo con maggiore insistenza – sorge il dubbio della praticabilità concreta di questi propositi – la fine delle ostilità, auspicando l’avvio di colloqui di pace in tempi ristretti e soprattutto una resa dei ribelli Houthi sostenuti dall’Iran. Nessun passo avanti è stato fatto in merito all’integrazione, nel GCC, dell’Iraq e della Giordania, anche a causa delle difficoltà nello sradicare le cellule estremiste di terroristi.

    2. Il punto sull’Arabia Saudita

    Qualche analista sottolinea che, dal punto di vista qualitativo, l’Arabia Saudita ha speso cifre ingenti in armamenti non sempre necessari e ciò senza alcuna valutazione dell’equilibrio tra costi e benefici, anzi talvolta prescindendo dalle effettive necessità e senza coerenti force improvements plans. In quanto a potenza militare complessiva, l’Arabia Saudita è stimata – ma con una tendenza al ribasso, va sottolineato – al 26mo posto su 136 Paesi, secondo Globalfirepower.com, con circa 231.000 militari in servizio e 25.000 riservisti. Le Forze Armate sono divise in 6 corpi: Esercito, Marina, Aviazione, Difesa Aerea, Forza Missilistica Strategica e Guardia Nazionale. Il settore con più militari attivi è la Guardia Nazionale, che però ha soprattutto ruoli interni (protezione della famiglia reale e dei luoghi sacri); tuttavia può essere usata anche come forza di intervento esterno. Ci sono, come si può dunque osservare, due tipologie di Forze Terrestri e non vi sono valide o razionali motivazioni per continuare ad investire in un Esercito da circa 75.000 uomini e in una Guardia Nazionale che ne conta circa 100.000, alle quali si aggiungono 24.500 uomini impegnati in forze paramilitari. Per quel che riguarda i maggiori sistemi d’arma le Forze Armate saudite disporrebbero – sempre stando al Globalfirepower – di circa 1000 carri armati, 4500 veicoli corazzati, 100 elicotteri, 300 caccia e un centinaio di navi. Proprio grazie a questo parco mezzi le forze di Riyad risultano tra le più armate del Medio Oriente, nonostante ci siano eserciti con un numero maggiore di truppe attive (uno su tutti l’Iran, principale avversario). Se si guarda alla funzionalità dei mezzi, sono notevoli gli sforzi profusi nell’improvement e nel rinnovamento della difesa aerea e terrestre. In tale direzione contribuiranno anche gli acquisti in corso dagli Stati Uniti (a meno di improbabili disdette legate al recente caso Khashoggi). Per quel che riguarda la difesa marittima, i Sauditi dispongono in particolare di 7 fregate e di due navi da rifornimento (nessuna portaerei). Quattro di queste fregate ed entrambi i rifornitori sono stati costruiti agli inizi degli anni Ottanta e dunque sono prossimi alla fine della loro carriera. Due contratti firmati nel 2018 per acquisire fregate spagnole e americane incrementeranno le dimensioni globali, già consistenti, della flotta. Doveroso sottolineare che, diversamente dagli Emirati Arabi, l’Arabia non ha alcuna esperienza di cantieristica militare e dovrebbe fare sforzi notevoli per colmare il gap e dunque fare a meno delle importazioni esterne. Più in generale, dunque, il Medio Oriente è così dipendente dalle importazioni in quanto le industrie militari dei vari paesi della regione risultano poco sviluppate. Fanno eccezione Israele e la Turchia (rispettivamente 3 e 2 aziende presenti nella top 100 delle maggiori compagnie produttrici di armamenti), che, comunque, non riescono nemmeno a far fronte alla domanda nazionale.

    3. Il ‘military procurement’ saudita

    Nelle ingenti spese militari sostenute dai Paesi mediorientali rientra, a pieno titolo, anche l’acquisto di armi. L’acquisizione di armamenti è la modalità principale attraverso cui un Paese può accrescere la sua forza militare: come si è visto ciò rappresenta, per i governi mediorientali, uno dei modi per condurre la propria politica estera (spesso di forza) e imporsi sullo scacchiere regionale ed internazionale. Infatti, larga parte delle spese militari dei paesi mediorientali sono composte da investimenti in armamenti e in ciò l’Arabia Saudita non fa, naturalmente, eccezione; anzi, stando a quanto elaborato – dati SIPRI alla mano – dall’Archivio IRIAD l’Arabia Saudita sarebbe stata, alle spalle dell’India, il principale acquirente dei maggiori sistemi d’arma al mondo, quantomeno riferendoci all’anno 2016.
    Su scala regionale, sempre secondo le elaborazioni IRIAD, le importazioni di armi verso il Medio Oriente sono cresciute dell’86% tra il quinquennio 2007-11 e 2012-16. La grafica qui di seguito, elaborata di recente da IHS-Jane’s Defence Budget, individua i principali fornitori di armi dei Paesi della zona. Il maggiore esportatore verso il Medio Oriente sono gli Stati Uniti, che hanno da sempre un rapporto privilegiato con gli Stati dell’area: essi hanno soddisfatto, nell’ultimo quinquennio, quasi la metà della domanda di materiale bellico della regione. Tra i Paesi europei seguono, ma a notevole distanza, la Francia, il Regno Unito e l’Italia.
    Per farsi un’idea concreta e quantitativa di queste percentuali, ci si può affidare alle stime Sipri. Il grafico mostra come il Medio Oriente possa attingere, per soddisfare la sua domanda di armamenti, ad una vasta gamma di fornitori. È difficile, al momento, effettuare qualche previsione circa l’andamento delle importazioni di armi in Arabia Saudita, alla luce dell’omicidio Khashoggi. Molto probabilmente gli Usa non si tireranno indietro dagli ingenti e vantaggiosi affari conclusi con il Regno. Volendo limitare le riflessioni al versante europeo, molto dipenderà dalla concreta attuazione, al di là dei proclami dei singoli Stati, di una recente risoluzione del Parlamento Europeo che il 25 ottobre scorso ha invitato nuovamente (lo aveva già fatto il 4 ottobre) i Paesi membri dell’UE a raggiungere una posizione comune per imporre un embargo alla vendita di armi all’Arabia Saudita. La Germania, al momento, ha congelato gli interscambi. La Spagna e la Francia proseguono con le commesse in atto e l’Italia – per la quale il grafico seguente indica le autorizzazioni nel quinquennio 2012-2017 per esportazione di materiale di armamento verso l’Arabia Saudita – non ha ancora espresso una posizione ufficiale al riguardo.

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    4. Il budget per la Difesa saudita come parte dominante del bilancio globale per la Sicurezza

    Già all’inizio di questo 2018 gli analisti sauditi enfatizzavano la volontà dei Reali di «accelerare la crescita del settore privato come volano per l’intera economia. Il budget del 2018 è il più alto mai investito dal Regno nella sua storia e tende a raggiungere gli obiettivi di Vision2030 attraverso un massiccio investimento nei settori non collegati al petrolio, quali la Difesa, l’Educazione, la Salute e le Infrastrutture» L’ambizione è quella, insomma, di valorizzare e diversificare l’economia privata per ridurre la dipendenza dal settore petrolifero. Ma non mancano mai riferimenti al settore Difesa.
    L’immagine che segue mostra una stima grafica – elaborata da Vivian Nereim per Bloomberg sulla base dei dati del Ministero delle Finanze saudita – delle percentuali delle spese militari sostenute da Re Salman rispetto al totale delle spese governative per l’anno in corso, in comparazione con il 2017.
    In rosso è visualizzato l’importo per il 2017, in nero quello per il 2018 ( che al momento della redazione dell’analisi era allo stato previsionale).
    Come si può constatare, la somma del military and security spending saudita ammonterebbe, per il 2018, a circa 290 miliardi di riyal sauditi (ovvero 77,3 miliardi di dollari). Ciò significa – è abbastanza evidente – che, a dispetto delle enormi riforme culturali e sociali annunciate e da attuare con il Programma Vision 2030, le spese di difesa e sicurezza erodono da sole una buona parte del budget totale. E, del resto, uno degli aspetti meno convincenti di Vision2030 riguarda proprio l’impegno a sviluppare in tempi brevi un sistema industriale autonomo e competitivo per la Difesa. Il che diventa ancora più complesso quando si discuta di sistemi d’arma molto avanzati, che l’Arabia Saudita difficilmente riuscirà a produrre e vendere. Anche il sorpasso delle spese militari a danno di quelle di istruzione appare impressionante. Una migliore e più razionale distribuzione delle spese sembrerebbe, allo stato, quantomai auspicabile. Le riforme sociali – sinteticamente ricondotte dagli analisti americani al ‘domestic spending’ – necessitano di maggiori investimenti per favorire l’espansione di un moderno settore industriale privato.

    5. Rendite petrolifere e spese militari

    Buona parte del budget annuale del Governo di Riyad (tra i maggiori produttori di petrolio mondiali) è composto – sebbene i piani di Vision2030 prevedano una sempre minore dipendenza del Paese dall’economia legata al solo petrolio – dalle rendite petrolifere: non è difficile immaginare come le proprie disponibilità di investimento (anche bellico) siano fortemente influenzate dal mercato del greggio. Gli analisti ritengono che le rendite petrolifere giochino un ruolo notevole nel determinare il livello di spesa militare nelle economie petrolifere, come evidenziato nei paesi africani, sudamericani e mediorientali dove l’aumento della spesa militare nei dieci anni passati è correlato con gli alti prezzi del petrolio. Al netto delle difficoltà, in generale, nel trovare un rapporto di causalità tra variazioni del prezzo del petrolio e spesa militare, è possibile accennare a come, nello specifico della situazione mediorientale, la spesa sia variata durante l’ultimo shock petrolifero (l’abbassamento dei prezzi a cui si assiste ormai dal 2014). Stando ai dati SIPRI, l’Arabia Saudita ha per tale ragione diminuito la sua spesa militare tra il 2015 e il 2016:

    6. Qualche previsione sulle spese militari

    Il Regno Saudita – come si enfatizza nei piani di sviluppo collegati a Vision2030 – è chiamato a fronteggiare una serie di sfide che andrebbero, sulla carta, ben oltre la necessità di effettuare massicci investimenti nel settore militare. Che però resta prioritario, al punto che gli analisti prevedono un’ ulteriore escalation delle spese militari della Regione del Golfo, partendo già dal prossimo anno con il raggiungimento e superamento della spesa complessiva record – calcolata su tutta la regione GCC – di 100 miliardi di dollari, come illustrato dal grafico seguente:
    La corsa al rialzo – evidentemente giustificata anche dalla previsione di una mancata soluzione alle instabilità politiche e militari della zona – sarà capeggiata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. Non si raggiungerà il record dell’aumento del 6% delle spese militari registratosi a cavallo tra il 2017 e il 2018, ma un tasso annuo di crescita del 3-4% sembra apparire sostenibile per il prossimo decennio. Ciò senza intaccare la crescita delle spese, che entro il 2023 potrebbe raggiungere i 117 miliardi di dollari complessivi. Il fatto che i Sauditi abbiano in programma di prendere a prestito grandi somme per il 2019 – ancora una volta nell’ambito del programma Vision 2030 – potrebbe costituire una ulteriore conferma della bontà delle previsioni di rialzo della spesa militare per il prossimo anno. Naturalmente, un significativo – e possibile, al momento – rialzo dei prezzi del petrolio potrebbe generare una ulteriore crescita delle spese complessive o, quantomeno, una significativa attività di procurement militare. Anche le ambizioni saudite di sviluppare una produzione industriale interna legata alla Difesa nel prossimo decennio non potranno che realizzarsi, almeno inizialmente, in partnership con gli abituali fornitori stranieri. Il giovane erede al trono saudita, entro il 2030, mira a localizzare il 50% delle spese militari sul territorio nazionale, attraverso la creazione di un’industria bellica locale, l’acquisizione di competenze e di risorse umane e una pianificazione economica più efficiente.
    La strada per una futura riduzione – allo stato molto improbabile – delle spese militari saudite passerebbe attraverso il raggiungimento di alcuni obiettivi politici chiave legati alla sicurezza:
    1. un contenimento pacifico dell’influenza militare dell’Iran;
    2. una conclusione pacifica del conflitto yemenita;
    3. pressioni politiche (e magari incentivi economici) all’Iraq al fine di incentivare la creazione, con altri Stati arabi, di una struttura regionale di sicurezza del Golfo capace di limitare l’influenza iraniana;
    4. ripresa e intensificazione delle relazioni con il Qatar, allo scopo di riformare il Gulf Cooperation Council per conferirgli un più significativo livello di integrazione e interoperabilità che sono mancati fin dalla sua istituzione. Il che comporterebbe una più stretta cooperazione militare tra Sauditi e UAE, così come una più stretta cooperazione con l’Oman, una spinta al Bahrain per la realizzazione di riforme nel settore Difesa e una consistente integrazione con il Kuwait e gli altri Stati del Golfo in ambito difesa aerea, navale e missilistica;
    5. incremento delle relazioni con la Giordania per farne un affidabile alleato nella sicurezza (minaccia Hizbullah). La Giordania riceve consistenti aiuti dai Sauditi;
    6. concentrare risorse sui soli punti deboli dell’assetto complessivo della sicurezza: difesa missilistica, forze aeree e navali capaci di meglio contenere le minacce asimmetriche iraniane e difendere i confini con lo Yemen.
    Naturalmente, gli obiettivi suggeriti richiedono tempi di raggiungimento ragionevolmente lunghi e nel loro perseguimento andrebbe considerato fondamentale il sostegno dell’alleato chiave dei Sauditi, l’America. La quale dovrebbe inoltre incoraggiare – altra cosa assai improbabile, allo stato – il Regno a investire nella stabilità civile e nello sviluppo economico, anziché intrattenervi affari militari. Dal punto di vista tecnico occorrerebbe riformare profondamente il sistema di budgeting, nella direzione di una maggiore trasparenza nel planning che integri e renda monitorabili (auditing) tutti gli aspetti della sicurezza. La trasparenza garantirebbe un maggiore controllo dei costi. Un esempio concreto potrebbe essere rappresentato dalla redazione un libro bianco annuale sulla sicurezza. Infine, una soluzione possibile, e facilmente realizzabile nel concreto, consiste in una razionalizzazione dell’Esercito e della Guardia Nazionale, così come delle altre Forze Paramilitari, per evitare inutili duplicazioni di funzione.

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    CONSULTA IL REPORT IN LINEA:

    Dossier 10 - Le spese militari in Arabia Saudita

    Docente a contratto presso l'Università Roma Tre.