Chi sarà il prossimo Presidente americano? Così i democratici divisi e preda dell’estremismo stanno agevolando la rielezione di Donald Trump è il diciottesimo Dossier del Machiavelli, opera di Stefano Graziosi.

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SOMMARIO ESECUTIVO

  • Dalle primarie del 2016, il Partito Democratico americano è caratterizzato al suo interno da una faida tra i centristi e le correnti legate alla sinistra, che non accenna a placarsi e che sta creando sempre maggiori divisioni intestine.
  • Il contrasto ideologico e politico tra i democratici è alla base dell’affollata campagna elettorale per le primarie del 2020, che vede attualmente in lizza oltre venti candidati.
  • All’orizzonte sembrerebbe profilarsi un duello tra l’ex vicepresidente Joe Biden (in rappresentanza del centro) e il senatore Bernie Sanders (a capo della sinistra). Non è tuttavia da escludere l’emergere di qualche outsider (soprattutto dalle parti delle galassie liberal).
  • In questo momento, Donald Trump è favorito nella corsa per la Casa Bianca: non solo dovrà affrontare un partito spaccato ma i principali indicatori economici sono ad oggi ampiamente positivi. Di vitale importanza per lui sarà tuttavia mantenere alto il livello di crescita economica nel corso del 2020 e risolvere favorevolmente la guerra commerciale con Pechino.

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[showhide type=”testo” more_text=”Mostra di più” less_text=”Mostra di meno”] LO SCONTRO TRA CENTRO E SINISTRA NEL PARTITO DEMOCRATICO AMERICANO

Il Partito Democratico americano si trova attualmente in uno stato di profondo caos. Una situazione ben esemplificata dall’elevatissimo numero di candidati alle primarie del 2020: con ben ventiquattro competitor in campo (nel momento in cui scriviamo), ci si avvia verso una battaglia piuttosto rissosa per la conquista della nomination. E, del resto, le radici di questa litigiosità vengono da lontano.
Non è un mistero che da anni l’Asinello1 risulti diviso da sfibranti faide intestine. Faide che, a livello generale, vedono contrapposti i centristi alle correnti maggiormente vicine alla sinistra democratica. Si tratta di una lotta che discende direttamente dalla campagna elettorale per le primarie del 2016. All’epoca, i candidati principali erano l’ex first lady, Hillary Clinton, e il senatore del Vermont, Bernie Sanders. Già dalla metà del 2015 era chiaro che i due portassero avanti delle linee politiche antitetiche. Se Hillary proponeva una prospettiva commerciale profondamente liberoscambista e una politica estera interventista, Sanders si collocava su tutt’altra linea: non solo il senatore sosteneva la necessità di adottare misure protezionistiche in tema di commercio internazionale ma – sul fronte della politica estera – mostrava una certa tendenza all’isolazionismo. Non a caso, per rimarcare il divario con la rivale, Sanders amava già all’epoca definirsi “socialista”.
La battaglia tra i due fu particolarmente aspra. E non si limitò soltanto a un mero scontro di idee. Attraverso una serie di rivelazioni, WikiLeaks diede adito al fondato sospetto che il comitato nazionale del Partito Democratico avesse favorito l’ex first lady a discapito della campagna elettorale di Sanders. Un elemento che si abbatté come un ciclone sull’Asinello, costringendo l’allora presidentessa del partito, la clintoniana Debbie Wasserman Schultz, a rassegnare le proprie dimissioni alla fine di luglio. Nel frattempo, Hillary – che aveva ottenuto infine la nomination – non sembrò rendersi conto fino in fondo delle spaccature interne alla base democratica. Nonostante l’ex first lady avesse trascorso tutta la prima parte del 2016 cercando di accreditarsi come candidata vicina alle istanze della sinistra, alla Convention di Philadelphia mutò totalmente tono. Lo si comprese quando, come proprio vice, scelse il senatore della Virginia, Tim Kaine: un centrista, in tutto e per tutto uguale a lei. Una strategia strana, visto che di solito il ticket presidenziale viene composto da due figure ideologicamente distanti, proprio per dare adeguata rappresentanza alle varie correnti interne. Hillary, dal canto suo, sperava evidentemente di replicare la strategia adottata da suo marito, Bill, nel 1992, quando – scegliendo al suo fianco un centrista a lui simile come Al Gore – puntò a pescare i voti dei repubblicani e dei democratici moderati. Una strategia che, se all’epoca si rivelò vincente, non lo fu altrettanto nel 2016, alla luce di un contesto del tutto cambiato.
La sconfitta novembrina non ha fatto quindi che accrescere le contraddizioni interne al partito. Non a caso, un altro scontro si registrò all’inizio del 2017, per l’elezione del nuovo presidente del partito. A contendersi la carica furono l’ex ministro Tom Perez (sponsorizzato dall’establishment) e l’allora deputato del Minnesota Keith Ellison (appoggiato da Bernie Sanders). A prevalere alla fine è stato Perez. Tuttavia la sua vittoria non ha recato nuova armonia in seno all’Asinello.
La problematicità di queste dinamiche conflittuali intestine sembrerebbe tuttavia essere sconfessata dal fatto che, in occasione delle elezioni di metà mandato del novembre 2018, i democratici siano riusciti a riconquistare la Camera dei Rappresentanti. Un risultato significativo ma che non può di per sé essere considerato sintomo di effettiva rinascita politica. Ricordiamo infatti che – storicamente – le midterm vengano di solito perse dal partito che detiene il controllo della Casa Bianca. Lo scorso novembre, l’esito elettorale ha invece prodotto un pareggio, con i repubblicani che sono riusciti a mantenere la maggioranza in Senato. Segno di come la famosa “onda blu” preconizzata da molti media alla fine non si sia in realtà verificata. Tra l’altro, l’elezione in quella tornata di numerosi deputati vicini alle correnti radicali non ha fatto che accentuare i diverbi tra centro e sinistra. Quest’ultima sta infatti adottando toni sempre più settari e virulenti, entrando sovente in contrasto con gli esponenti dem più moderati. Si pensi solo che, lo scorso febbraio, la neo deputata Alexandria Ocasio-Cortez abbia addirittura minacciato di redigere una lista di colleghi non allineati all’ortodossia delle galassie liberal: un elemento che ha infastidito non poco svariati suoi compagni di partito. E, in questo caos, la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, si ritrova spesso costretta a barcamenarsi tra i marosi di una compagine in costante stato di guerra civile. Anche perché, oltre alla sanità, le faide riguardano oggi svariati altri dossier: dall’opportunità di intentare un processo di impeachment contro Donald Trump alla proposta ambientalista del Green New Deal, senza dimenticare il dibattito sulle politiche di Israele e gli stessi temi eticamente sensibili (a partire dall’aborto).

2. VERSO LE PRIMARIE DEMOCRATICHE DEL 2020

È in questo tumultuoso brodo di coltura che è sorta la bizzarra situazione dell’attuale campagna elettorale per le primarie del 2020. Si tratta infatti, a ben vedere, delle primarie democratiche più affollate della storia: molto più affollate di quelle del 1976 (che videro sedici candidati) e di quelle del 1972 (che di competitor ne ospitarono quindici). La cosa interessante da rilevare innanzitutto è che, in entrambe queste tornate, ad imporsi furono figure non troppo vicine all’establishment partitico: nel primo caso ad emergere fu l’allora quasi sconosciuto governatore della Georgia, Jimmy Carter, mentre nel secondo a ottenere la nomination fu il senatore radicale George McGovern. Due profili comunque non troppo elettoralmente saldi: se Carter vinse infatti di misura le presidenziali del 1976 per essere poi defenestrato da Ronald Reagan quattro anni dopo, McGovern rimediò invece una clamorosa sconfitta nel confronto diretto con Richard Nixon del 1972. Insomma, i precedenti non sembrerebbero essere di buon auspicio. Inoltre, più in generale, i problemi attualmente sul tavolo sono molteplici: non soltanto l’Asinello rischia una pessima figura in termini di immagine, mostrandosi diviso, rissoso e ostaggio delle smanie di protagonismo. Ma uno dei rischi che si stagliano all’orizzonte riguarda la possibilità che nessun candidato in lizza riesca alla fine ad ottenere il quorum di delegati necessario per ricevere la nomination. Un’eventualità che aprirebbe le porte alla cosiddetta “contested convention”, con il rischio di paralisi interna e ulteriori (deleteri) bisticci. A tutto questo, come se non bastasse, si aggiunga la frantumazione interna al fronte della sinistra. Se nel 2016, come abbiamo visto, quest’area era riuscita a compattarsi attorno alla figura di Sanders, oggi si è invece sparpagliata dietro una miriade di candidati: da Elizabeth Warren a Kamala Harris, passando per Beto O’ Rourke e Bill de Blasio (soltanto per fare qualche nome).
Attualmente tutti i sondaggi danno in testa Joe Biden. Un elemento che, secondo non pochi commentatori, farebbe dell’ex vicepresidente il candidato ideale per battere Trump nel 2020. Indubbiamente ha dalla sua alcuni fattori di vantaggio: non solo può contare su una salda notorietà a livello nazionale (in gran parte dovuta agli otto anni di permanenza alla Casa Bianca a fianco di Barack Obama) ma è ad oggi l’unico rappresentante effettivo delle correnti centriste in seno all’Asinello. Fatto, questo, che gli consente una propria riconoscibilità, rispetto alla pletora di concorrenti che si agita alla sua sinistra. Detto questo, la strada per Biden non si profila affatto in discesa. In primo luogo, da senatore del Delaware (incarico ricoperto per quasi quarant’anni), ha sempre portato avanti una linea politica molto tradizionale: non solo è stato un fautore di prospettive energicamente liberiste ma – in politica estera – ha spesso assunto posizioni interventiste (come quando, nel 2002, votò a favore della guerra in Iraq). Ecco, proprio questo tipo di prospettive risultano oggi particolarmente impopolari tra gli elettori americani e – soprattutto – tra la classe operaia impoverita della Rust Belt: una quota elettorale storicamente democratica che, nel 2016, ha scelto di votare per Trump. E proprio agli occhi dei colletti blu Biden costituisce un’incognita: non solo ha recentemente affermato che la Cina non rappresenterebbe un pericolo per gli Stati Uniti in termini commerciali8 ma parrebbe voglia anche rinverdire le sue istanze aggressive verso i tradizionali nemici dell’America (a partire dalla Russia): non è quindi ben chiaro come potrà accattivarsi le simpatie di quella classe operaia che chiede misure protezionistiche in materia di commercio internazionale e – soprattutto – non vuole più sentir parlare di guerre statunitensi in giro per il mondo. Inoltre, non va trascurato un altro fattore non poco rilevante: l’elettorato americano (soprattutto a sinistra) risulta oggi sempre più pervaso da un profondo sentimento antisistema. Alla luce di questo, Biden si troverà ad affrontare non pochi ostacoli: non solo si tratta infatti di un “professionista della politica” ma il problema maggiore per lui riguarda la questione dei finanziamenti elettorali. Se i suoi rivali di partito si stanno appoggiando quasi esclusivamente alle micro-donazioni, l’ex vicepresidente può invece contare sui grandi finanziatori che foraggiarono la campagna presidenziale di Obama nel 201210. Un fattore che sta già mettendo in cattiva luce l’ex senatore agli occhi delle correnti radicali, che lo considerano una marionetta nelle mani di Wall Street. Non sarà del resto un caso che la guerra a Biden sia di fatto già iniziata settimane prima della sua candidatura ufficiale, visto che l’ex vicepresidente è stato accusato di molestie sessuali e di aver appoggiato posizioni filo-segregazioniste negli anni ’70.
Principale rivale di Biden è il senatore socialista Bernie Sanders, che – dopo la sconfitta del 2016 – riprova oggi a conquistare la nomination. Il suo punto di forza prevalente risiede probabilmente nell’aver compreso le cause strutturali della debacle democratica avvenuta alle ultime presidenziali. In questo senso, rispetto a Biden, risulta un profilo in grado di essere maggiormente convincente agli occhi dei colletti blu. E infatti ha già iniziato spietatamente a contenderli a Trump da diversi mesi. Qualche settimana fa, durante un evento elettorale in Iowa, si è detto contrario alla politica delle frontiere aperte, capendo – esattamente come Trump – come la classe operaia sia spaventata dall’immigrazione clandestina. Niente di nuovo sotto il sole, visto che – guardando alla storia – il sindacalismo americano tra gli anni ’50 e gli anni ’80 ha espresso posizioni piuttosto critiche verso gli immigrati irregolari, nel nome della difesa salariale e della tutela dei posti di lavoro. Ma non è tutto. Il senatore del Vermont vanta infatti una efficace capacità organizzativa ed è uno stratega abbastanza abile. Contrariamente a come talvolta viene dipinto (quasi si trattasse di un idealista astratto), mostra spesso una grinta politica non indifferente, abbinata a punte di machiavellismo. Sanders, insomma, è uno che gioca per vincere. Ciononostante per il senatore socialista i principali problemi sul tavolo sono due. Innanzitutto, come già accennato, la presenza di numerosissime figure che vogliono rappresentare la sinistra dem: se molte di queste finiranno ben presto nel dimenticatoio, altre si riveleranno ossi più duri da gestire. E il rischio di logoramento per Sanders potrebbe quindi celarsi dietro l’angolo. In secondo luogo, l’altra incognita per il senatore è la sua vicinanza a Trump. Per quanto paradossale a prima vista questa affermazione possa apparire, non dimentichiamo come i due concordino su alcune questioni dirimenti (dal commercio internazionale alla riforma infrastrutturale). Lo stesso Trump, lo scorso maggio, ha significativamente affermato che il candidato socialista sia «più intelligente» di Biden. In questo senso, Sanders potrebbe risultare penalizzato all’interno di un sistema elettorale – quello statunitense – che solitamente tende a selezionare i due candidati ideologicamente più divergenti.
A sinistra, per il momento, i maggiori grattacapi per il senatore socialista potrebbero arrivare dalla senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, e dalla senatrice della California, Kamala Harris. La prima sta mettendo al centro della sua strategia la volontà di avanzare dettagliate proposte legislative: iniziativa anche lodevole ma che rischia di non portarla troppo lontano. Uno dei grandi limiti che Elizabeth Warren riscontra dal 2016 (quando già fu ipotizzata una sua candidatura) è infatti il carattere cattedratico e un po’ astratto del personaggio. Molto dedita alla battaglie di principio, la senatrice deve ancora dimostrare di possedere un’abilità organizzativa efficace per condurre una campagna elettorale di stampo presidenziale. Senza poi trascurare una sua certa indisponibilità al confronto: recentemente ha rifiutato l’invito a partecipare a un dibattito sul network conservatore Fox News, affermando di non voler avere nulla a che fare con «i razzisti e i complottisti». Un problema di autoreferenzialità (e forse di scarsa tolleranza) che non riguarda soltanto Elizabeth Warren. Anche Kamala Harris infatti su questo punto non brilla particolarmente. Soprattutto negli ultimi mesi, la senatrice californiana si è sempre più imposta come punto di riferimento per le ali maggiormente oltranziste e barricadiere dell’universo liberal. La sua militanza infervorata si è del resto manifestata in occasione dell’ostruzionismo condotto dai democratici contro la conferma del giudice Brett Kavanaugh alla Corte Suprema nel settembre del 2018. Senza poi dimenticare come, di recente, Kamala Harris abbia contestato un altro togato per la sua appartenenza all’associazione cattolica dei Cavalieri di Colombo: un atteggiamento che ha suscitato non poche polemiche (anche da parte di qualche collega democratico). Al momento, non è esattamente chiaro se la senatrice voglia proseguire su questa china. È pur vero che, in sede di primarie, di solito ad essere favoriti risultano i candidati più agguerriti e ideologicamente netti. Ma è poi quasi impossibile che costoro si mostrino capaci di conquistare la Casa Bianca, non riuscendo a incassare quel consenso trasversale da sempre fondamentale per vincere una General Election.
Del resto, la questione del settarismo appare piuttosto generalizzata in queste primarie democratiche. Il punto è che la maggior parte degli attuali candidati sembrano mirare ad ottenere l’appoggio di questa o quella minoranza, perdendo di vista il quadro di insieme. Così, per esempio, il senatore del New Jersey, Cory Booker, punta al voto afroamericano; il sindaco di South Bend, Pete Buttigieg, al sostegno degli omosessuali; l’ex ministro Julian Castro all’appoggio degli ispanici. Sembra, cioè, che molti competitor stiano più o meno consapevolmente replicando la fallimentare strategia messa in campo dal reverendo Jesse Jackson alle primarie democratiche del 1984, quando cercò di creare una coalizione di minoranze, per finire poi relegato al terzo posto. Settarismo e particolarismi infine devono fare i conti con i fenomeni mediatici. Al momento sono infatti in corsa alcune figure la cui effettiva consistenza politica deve ancora essere dimostrata. Pensiamo, per esempio, all’ex deputato texano Beto O’ Rourke, celebrato come un enfant prodige del Partito Democratico pur avendo rimediato una sconfitta contro il senatore repubblicano, Ted Cruz, alle ultime elezioni di metà mandato. Un profilo molto liberal che – al momento – non è del tutto chiaro in che modo riuscirà a distinguersi dalla folla dei suoi concorrenti. Senza considerare che il tipo di retorica celebrativa che aleggia attorno al personaggio ricorda molto quello che accompagnò l’ascesa di un’altra giovane promessa della politica americana: il senatore della Florida, Marco Rubio, che – alle primarie repubblicane del 2016 – era considerato tra i candidati maggiormente papabili per conquistare la Casa Bianca. Ciononostante venne umiliato dall’allora governatore del New Jersey, Chris Christie, durante un dibattito televisivo: Rubio ne uscì come un politico costruito a tavolino, un prodotto di marketing elettorale. E la sua corsa, a quel punto, si impantanò definitivamente19. O’ Rourke dovrà quindi fare molta attenzione, se vuole evitare una tale fine ingloriosa. In questo senso, bisognerà monitorare anche le mosse del sindaco di New York, Bill de Blasio. Secondo molti, nutrirebbe non poche speranze di successo, potendo contare su un feudo elettorale popoloso come quello dell’Empire State. Questo fattore è indubbiamente importante ma non basta per essere troppo ottimisti sulla sua campagna elettorale. Innanzitutto de Blasio non è l’unico newyorchese ad essere sceso in campo: anche la senatrice Kirsten Gillibrand si è infatti candidata e questo potrebbe creare un certo disorientamento tra gli elettori locali. In secondo luogo, non bisogna trascurare che l’attuale sindaco non intrattiene rapporti troppo cordiali con le alte sfere del Partito Democratico del suo Stato: sono abbastanza noti i suoi battibecchi con il governatore Andrew Cuomo e questo potrebbe rappresentare un elemento problematico per la sua corsa. Inoltre, non bisogna trascurare che – di solito – i politici di provenienza newyorchese siano affetti da una certa autoreferenzialità, che impedisce loro di raccogliere consensi che vadano oltre la Grande Mela, la California e il New England. Fattore tanto più importante oggi che il Midwest risulta dirimente per arrivare alla Casa Bianca. Non è del resto un mistero che storicamente i sindaci newyorchesi non abbiano una grande fortuna in termini di elezioni presidenziali: basti ricordare il precedente fallimentare di Rudy Giuliani alle primarie repubblicane del 2008.

LE MOSSE DI DONALD TRUMP

La “guerra civile” in seno al Partito Democratico è appena agli inizi. Il futuro è carico di incognite e non è assolutamente chiaro chi potrà emergere da una tale complicatissima situazione. In questo senso, Donald Trump risulta al momento non poco avvantaggiato. E non solo per il caos in cui è piombato l’Asinello. Non dimentichiamo che attualmente i principali indicatori economici risultano energicamente positivi: il prodotto interno lordo americano è volato al 3,2%, mentre il tasso di disoccupazione è crollato ai minimi dal 1969. Si tratta di dati particolarmente incoraggianti, visto che – negli ultimi decenni – gli unici due presidenti a non ottenere una rielezione (Jimmy Carter nel 1980 e George H. W. Bush nel 1992) furono quelli che si trovarono a dover fronteggiare un’economia in affanno. Inoltre Trump è stato anche scagionato dall’accusa principale legata all’inchiesta Russiagate: quella, cioè, di collusione con il Cremlino nel corso della campagna elettorale del 2016. Una svolta che ha rafforzato la posizione del presidente agli occhi degli elettori e – soprattutto – all’interno del suo stesso partito. Per questa ragione, scalzare Trump nel 2020 appare al momento un obiettivo molto arduo da raggiungere per i democratici. Il magnate newyorchese è infatti riuscito a sottrarre loro alcuni fondamentali cavalli di battaglia (dalla difesa della classe operaia alla riforma infrastrutturale) e l’Asinello sta quindi faticando non poco a trovare una linea coerente ed efficace da seguire. Una simile situazione sembrerebbe stia spingendo alcuni candidati ad abbracciare la via di un’opposizione basata sulle vicende di natura giudiziaria: Elizabeth Warren si è per esempio detta favorevole all’impeachment contro Trump. Il punto è che una simile strategia potrebbe rivelarsi seriamente controproducente: non dimentichiamo che Bill Clinton aveva raggiunto il picco di popolarità proprio nelle settimane in cui fu messo in stato d’accusa (a cavallo tra il 1998 e il 1999). Non sarà forse un caso che Nancy Pelosi non si stia mostrando troppo desiderosa di istruire un processo di impeachment contro Trump.
Il presidente, dal canto suo, dovrà fare di tutto per sostenere la fase di crescita economica anche nel corso del 2020: è in questo senso che, con ogni probabilità, ha recentemente presentato un piano infrastrutturale dal valore complessivo di duemila miliardi di dollari. Senza poi trascurare il complicato rapporto con la Cina: un dossier su cui Trump si gioca molto, soprattutto in termini di consenso da parte della classe operaia. Più in generale, il presidente sta adottando da qualche mese una strategia precisa: additare il Partito Democratico come una forza estremista e inaffidabile. L’idea è, cioè, quella di imitare sostanzialmente la linea elettorale di Nixon contro McGovern alle presidenziali del 1972. Non a caso, in occasione dell’ultimo discorso sullo stato dell’Unione, il presidente ha dichiarato che gli Stati Uniti non diverranno mai un Paese socialista. E, sempre in questo senso, Trump ha spesso negativamente rimarcato i commenti critici della neo deputata democratica Ilhan Omar nei confronti dello Stato di Israele. Incarnare l’immagine di candidato rassicurante, preservando tuttavia al contempo l’originaria carica anti-establishment: è con questa ambiziosa strategia che Donald Trump affronterà la partita della rielezione.[/showhide]
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Ricercatore del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Filosofia politica (Università Cattolica di Milano) con una tesi su Leo Strauss. Si occupa di politica internazionale collaborando con "La Verità" e "Panorama". Il suo ultimo libro è Trump contro tutti. L'America (e l'Occidente) al bivio (2020), scritto con Daniele Scalea.